La notizia della sentenza con cui il Consiglio di Stato ha dato ragione a Villa dei Fiori sta suscitando un grande scalpore. Anche perché la vicenda, iniziata nel 2015, a suo tempo riempì non solo le pagine dei giornali ma anche le piazze, con le storiche fiaccolate che videro per ben cinque volte centinaia di persone sostenere il progetto di un ampliamento della struttura (senza costi pubblici) contro quello che fu definito il “boicottaggio” del Comune quando era sindaco Manlio Torquato. Boicottaggio, oggi è ufficiale, illegittimo. Due i sentimenti dominanti, espressi ieri dai vertici di CISL e UIL: da un lato la soddisfazione per ciò che ora finalmente potrà essere realizzato, dall’altro il rammarico per tutto il tempo e il denaro persi senza alcuna ragione. Oggi a commentare la sentenza arriva una nota di Villa dei Fiori. La riportiamo integralmente.
Non c’è nessuna sorpresa nell’apprendere della sentenza del Consiglio di Stato. Sapevamo benissimo da sempre che tutte le carte e il progetto erano in regola. Siamo convinti che lo sapessero bene anche coloro che quel progetto hanno voluto bloccarlo per anni. Di quegli anni restano due cose. La prima è la bellezza dell’unità che vide insieme lavoratori, associazioni, cittadini comuni. Quelle fiaccolate, quelle mobilitazioni, restano una testimonianza bellissima di impegno, partecipazione, passione civile. L’altra, meno bella, è un esempio di ciò che non deve essere la politica e di ciò che non deve essere la burocrazia. Perché il progetto fu bloccato? Lo dice proprio la sentenza del Consiglio di Stato quando scrive “ è stato il dirigente comunale a dare autonomo impulso, senza passare per la sede conferenziale, alla richiesta di integrazione documentale, dando luogo ad un surrettizio ed illegittimo esercizio del potere di riesame, in violazione delle attribuzioni della conferenza e della competenza dell’amministrazione di settore cui la legge riserva il potere di impulso”. Nel suo linguaggio giuridico il Consiglio dice una cosa chiara e semplice: l’amministrazione comunale non fece il suo dovere, lasciando il dirigente amministrativo ad esercitare un surrettizio e illegittimo esercizio di potere. Quel potere che spettava alla politica, la quale – diciamo poco coraggiosamente – lasciò invece ad altri, dandosi l’alibi infondato di pareri tecnici altrettanto infondati. Così alle domande reali e concrete della società, dei lavoratori, dei cittadini, la risposta che fu data allora in Consiglio comunale, irridendo i pochi consiglieri che volevano assumersi le proprie responsabilità, era questa: “ non si può fare perché l’ha detto il tecnico”. La gente non contava nulla. Anzi, era un nemico. Si arrivò a scrivere una pagina indelebile, indegna di qualsiasi paese civile: la giunta diede mandato all’avvocatura di procedere legalmente contro i rappresentati del Comitato spontaneo di lavoratori e cittadini. Era la giornata della donna. Le donne che guidavano quel comitato si trovarono davanti i carabinieri, spaventate si dimisero dal loro incarico. Nocera sembrò una provincia della Corea del Nord. Un sondaggio dimostrò che la maggior parte dei nocerini non si sentiva libero. Brutti tempi, qualcuno direbbe “una vergogna”.
Ecco, questa vicenda ci insegna qualcosa di importante che non riguarda solo Nocera. Il disastro c’è quando la politica si rende, da sola, ostaggio sciocco della burocrazia. Non decide ma fa decidere, non si espone ma si nasconde. È la negazione della democrazia, perché il popolo non elegge i burocrati ma i politici. La burocrazia ha una funzione fondamentale ma è una funzione al servizio della politica e non l’inverso. Il burocrate, giustamente, si occupa delle carte. Certo, deve farlo bene (e in questo caso fu fatto malissimo). Ma è il politico che deve ragionare e agire in termini di interessi sociali, bisogni, risposte. Rispettando le carte, è ovvio, ma non fermandosi a quelle, altrimenti non ha motivo di esistere, né di essere eletto. Deve dunque assumersi le sue responsabilità e non nasconderle sotto il tappeto improprio del “parere burocratico”. Di quello non risponderà nessuno. E la politica dirà che non poteva fare altro. Insomma nessun responsabile, e pazienza se non si è fornita alcuna risposta alla domanda sociale, si sono persi posti di lavoro, si è perso denaro. È questo che deve cambiare: la politica torni ad essere capacità di decidere e rispondere, la burocrazia ad essere strumento al servizio (e non al comando) di queste decisioni, e ognuno si assuma le proprie responsabilità verso i cittadini e verso la legge. Già, chi paga gli errori? Il Comune dovrà pagare 5.000 euro. Qualcuno forse pensa che dovranno esser pagati dagli stessi cittadini danneggiati da quelle decisioni sbagliate e illegittime. Ci sarebbe la beffa oltre il danno. E allora la domanda chi paga? non è solo economica, è politica.